La censura nei libri, in nome di quale politically correct?

Agente Letterario | Editing e Promozione Libri Inediti | Francesca Costantino

Via le parole “grasso”, “nano”, “brutta” quando si scrive, in nome dell’inclusione e del politically correct. Ma non sono io, agente letterario, a dirlo, e la questione non riguarda solo gli autori emergenti, i self-publisher o anche gli scrittori professionisti. Qui la faccenda è seria, a partire dalla decisione della casa editrice Puffin Books di rieditare i libri dell’autore classico per bambini, Roald Dahl, a trent’anni dalla sua morte, cambiando alcune parole che lo scrittore aveva scelto in riferimento alla figura femminile, alle persone di bassa statura, ai personaggi con problemi di peso.

Una scelta criticata, discussa da più parti proprio in questi giorni, che apre un dibattito sociale, filosofico, culturale, morale e anche con risvolti legali. Gli articoli più letti al riguardo, nel mondo, parlano di minare con questa forma di censura la libertà di espressione di un autore deceduto, di cui hanno diritto solo gli eredi e, sebbene in taluni casi la prosa di Dahl sia – per un lettore moderno – “pesante” e piena di giudizi morali ed estetici, la protesta intellettuale sull’operazione Puffin Books riguarda anche la possibilità per i bambini e i ragazzi di oggi di contestualizzare, capire che una scelta stilistica era fatta in base a un modo di pensare e di agire adatto all’epoca in cui è stata scritta; si mina la possibilità di filtrare il messaggio e comprendere quanto un termine sia “sbagliato” e perché. Si toglie, insomma, la facoltà ai più giovani, durante la lettura, di avere una propria autonomia di pensiero e decidere cosa è giusto o meno.

Censurare un contenuto di un’opera, a partire anche dalle fiabe classiche (ad esempio con i lungometraggi della Disney), può avere anche risvolti pedagogici negativi: per una certa fascia di età, è fondamentale per lo sviluppo sapere che esiste il buono e il cattivo, il lupo, il mostro, il bene e il male. Tornare a leggere ai nostri figli, ad esempio, è un modo per spiegare e contestualizzare, per sviluppare il senso critico dei ragazzi e degli adulti che verranno.

Invece di cancellare o riscrivere i classici (fiabe o racconti che siano), io come agente letterario, ma anche come madre, auspico che i bimbi e i ragazzi di oggi possano fruire di qualsiasi medium (dalle serie tv ai videogame, passando per i libri e i graphic novel), anche quando possibile con la vicinanza di un adulto, che non vengano abbandonati a loro stessi durante la lettura o il gioco, ma che siano affiancati da delle figure di riferimento, ad esempio dagli stessi insegnanti nelle scuole, per parlare e dibattere e sviscerare paure o pensieri negativi.

Anche attraverso il filtro di un adulto e con il dibattito tra coetanei, infatti, un libro o un gioco fanno cultura, non solo per le parole usate da un autore. Cultura è ciò che resta nell’inconscio e forma il carattere, forse e soprattutto quando questo passaggio cognitivo viene fatto colpendo l’inconscio in modo crudo e diretto.

Cosa ne pensate voi, al riguardo? Attendo i vostri commenti e, come sempre, buona scrittura!